recensioni



    La passione di Antonietta Chiodo per i diritti umani e la scrittura, l'hanno portata a collaborare con varie testate giornalistiche tra cui Promosaik e Pressenza International Press Agency. Spesso si è trovata a diretto contatto con le popolazioni all’interno dei campi profughi in Nord Africa e in Palestina e di frequente ha realizzato delle indagini sul territorio e delle interviste a coloro che vivono la propria quotidianità sotto occupazione e nell’incubo 

Informazioni 

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Informiamo che è online lo speciale di www.repubblica.it :  
"Partigiani, vite di Resistenza e Libertà
ADDIO  ILEANA

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  • La sezione Anpi "Boris Bradac” esprime profondo cordoglio per la scomparsa di un’altra figura storica di Chivasso, Ileana GONZINA.   Con lei se ne va una testimone e un’amica, sempre disponibile a raccontarci la sua esperienza rispetto alla seconda guerra mondiale durante la quale, aveva 9 anni,  è diventata invalida di guerra. La ricondiamo tutti con affetto per la sua passione politica e civile e l’attaccamento ai valori democratici ed antifascisti. Vive nei nostri ricordi grazie anche all'intervista realizzata da Beppe Stocco nel video "I giorni del sole nero" prodotto dall'Anpi e dalle Acli di Chivasso e pubblicato su YouTube l'8 marzo 2010.
  • I giorni del sole nero 1 di 2.avi  da 7,27' a 9,16'
  • I giorni del sole nero 2 di 2 avi

Ermanno Vitale
 Difendersi dal potere.
Per una resistenza costituzionale
Roma-Bari, Laterza, 2010
Per farsi una prima idea della natura di questo libro è forse utile scorrere l’indice dei nomi. Vi troviamo Junius Brutus, Althusius, Hobbes, Locke, Rousseau, Kant, Marx, Tocqueville: i grandi nomi del pensiero politico, come si conviene ad un libro dotto a ad uno studioso che si è formato alla scuola di Norberto Bobbio. Ma vi troviamo anche nomi che, più che nei testi accademici, incontriamo nella letteratura militante: e non solo nei libri, ma anche nei tanti luoghi della «rete» dove riflette e discute quella vasta e multiforme opposizione al potere alla quale i grandi media prestano scarsa attenzione. Qualche esempio: Serge Latouche, il teorico della decrescita; Jeremy Brecher, autore con Tim Costello del libro Contro il capitale globale. Strategie di resistenza, pubblicato da Feltrinelli nel 2001; Howard Zinn, che degli Stati Uniti d’America ha raccontato la storia dei poveri, dei nativi, degli schiavi, delle donne. E ancora coloro che hanno teorizzato e praticato la resistenza nonviolenta e la disobbedienza civile: Thoreau, Gandhi, Capitini.
Quello di Vitale è dunque un libro in cui sono unite competenza accademica e spirito militante. L’autore muove da questa domanda: ha ancora senso pensare al «diritto di resistenza» negli stati democratici di diritto? Nelle “società aperte” contemporanee, il diritto di resistenza pare divenuto un oggetto di studi eruditi di storia del pensiero politico ma non più di teoria politica e di dibattito pubblico. Un tempo, il tempo delle varie forme di governo autocratico, la riflessione intorno alla legittimità o meno di destituire o addirittura uccidere il tiranno, l’invasore, l’usurpatore, il despota o il dittatore – o comunque di abbattere i regimi assoluti, dispotici e totalitari –godeva di una sua forza intrinseca, dovuta all’evidenza del problema che affrontava. Tale riflessione poteva giungere, come in Locke, fino a interrogarsi sulla legittimità di resistere anche al “governo rappresentativo, ove quest’ultimo tradisse la fiducia accordatagli dai rappresentati: allora infatti le costituzioni non si erano ancora dotate di meccanismi di correzione interna, di istituzioni di garanzia, prime fra tutte le corti costituzionali. Ma con la comparsa e il consolidamento dello stato democratico di diritto, provvisto di molteplici istituti di garanzia, parve che il vecchio “diritto di resistenza” potesse venire tranquillamente dimenticato. Soprattutto nelle costituzioni europee del secondo dopoguerra gli strumenti di opposizione «attraverso il diritto» sembravano essersi così affinati da rendere inutile e contraddittorio, se non pericoloso, riammettere in qualche forma quella «resistenza all’oppressione» che figurava nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e in alcune costituzioni di quel periodo. Eppure – si domanda Vitale – nelle democrazie in cui viviamo è proprio ormai diventato inutile riflettere sulla resistenza all’oppressione e sul “diritto di resistenza”? O forse queste democrazie sono ormai così imperfette, ed ora anche minacciate da involuzioni autoritarie, che è necessario riprendere a ragionare sull’antico «diritto di resistenza»? L’autore elabora in proposito la nozione di «resistenza costituzionale»: espressione che significa prima di tutto «prendere sul serio» la Costituzione, rispettarla appieno, portarla a compimento nell’ordinamento giuridico e nell’organizzazione sociale, e infine «resistere» ai tentativi di modificarla in peggio o di distruggerla.  E si domanda se sia opportuno o meno inserire nel testo di una costituzione moderna un articolo, un comma, un riferimento alla resistenza, ovvero, al «diritto di resistenza».
Ma a chi e a che cosa, a quale tipo di potere oggi sarebbe lecito o opportuno resistere? La tipologia moderna delle forme di potere è fondata sulla distinzione tra potere politico, economico, ideologico (o massmediatico). Ma mentre nella storia del pensiero politico si è molto riflettuto riguardo alla resistenza al potere politico, troppo poco ci si è posti il problema della resistenza al potere economico e a quello ideologico. Eppure, è sufficiente resistere al potere politico se questo è a sua volta condizionato o dominato dai poteri economico e ideologico? Oppure occorre pensare a come opporre resistenza anche direttamente a questi due ultimi poteri?
L’autore si chiede infine come si possa o si debba resistere. La distinzione tradizionale colloca da un lato la resistenza passiva, il rifiuto dell’obbedienza che comprende l’accettazione di tutte le sue conseguenze, e dall’altro la resistenza attiva, l’azione violenta intesa a rovesciare il detentore del potere politico. Ma nel mondo moderno, soprattutto dalla metà dell’Ottocento, le modalità e le manifestazioni di resistenza si sono moltiplicate, dando spazio a molte forme di resistenza parziale, che, pur non proponendosi di rovesciare questo o quel regime, intendono indurlo a rettificare aspetti salienti della sua struttura istituzionale, della sua condotta o del suo programma politico. Basti pensare ai cosiddetti «repertori della protesta», che vanno dalla prudente raccolta di firme alla disobbedienza civile antagonistica. Si incontra qui la questione decisiva dell’uso della violenza o, al contrario, della riduzione al minimo della violenza che può essere legittimo usare nell’esercizio del diritto di resistenza. Nell’affrontare tale questione non si può non prendere in seria considerazione – conclude Vitale - i metodi di lotta non violenta, o per meglio dire intesi alla riduzione al minimo della violenza, che Gandhi ci ha lasciato in eredità.
Piero Meaglia

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In ricordo di Eligio Battù

Casalborgone, 23 aprile 2010
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Ho avuto occasione di conoscere Eligio Battù, il partigiano «Primo», in maniera superficiale: credo di averlo salutato qualche volta in occasione di mie visite a Annalisa e Ermanno e ho saputo soltanto recentemente del suo passato partigiano.
Quello che posso fare, dunque, è ripercorrere brevemente le sue vicende, sulla base del  diario che ora abbiamo tra le mani, cercando di non cadere nelle «solite forme di bolsa retorica» che espressamente Eligio dice di aver voluto evitare, nel suo scritto.
Si tratta di un altro piccolo, sobrio ma importante frammento di quella «storia dal basso» che è un indispensabile complemento, come ci ha insegnato, tra gli altri, un altro giellista, Nuto Revelli, della cosiddetta grande Storia, con la S maiuscola. Non si tratta di una testimonianza scritta a distanza di tempo, forzando l’intelligenza a cercare ricordi tra immagini, fantasmi, pensieri dolorosi, delusioni, ma anche momenti di intensa gioia e di inedita libertà; e neppure di un tentativo di ricostruzione puntuale dei fatti. Abbiamo tra le mani una breve memoria, redatta a 4 anni dalla fine della guerra su una fragile carta velina da un giovane uomo di 25 anni che scrive per se stesso, per conservare la traccia degli eventi e dei sentimenti che ha vissuto, «cercando di mettere un po’ d’ordine nei miei confusi ricordi, poiché il diario che scrivevo in quel periodo è andato perduto e quanto ho raccolto a guerra ultimata è andato smarrito»: un tentativo, dunque, di mantenere vivo per sé il recente «passato di ribelle», come scrive Eligio, con un’attenzione speciale ai momenti che più lo hanno segnato, come il rastrellamento dell’ottobre 1944 in Valchiusella.  
Una scrittura essenziale, in cui il racconto dei fatti ogni tanto si interrompe per lasciar spazio, ma sempre in poche righe e con molto pudore, alla descrizione degli stati d’animo che hanno segnato i momenti più importanti di questa decisiva e violenta esperienza di vita; e in cui si possono leggere in filigrana le difficoltà procurate non solo dalla dura esistenza quotidiana  del ribelle, ma anche dai complessi rapporti tra le formazioni di diversa ispirazione, siano esse quella garibaldine oppure quelle autonomiste della Val d’Aosta.
Dunque, cercherò innanzitutto di seguire il viaggio di Eligio, nei suoi passaggi essenziali. 

Dal 25 luglio all’8 settembre 1943

Per Eligio, che ha da pochi giorni terminato i suoi studi liceali, il 25 luglio del 1943, il giorno della caduta di Mussolini, rappresenta la svolta decisiva, che egli spiega con queste parole:

«25 luglio cadeva il regime fascista, cadeva il prestigio dell’uomo che nella scuola avevo imparato a conoscere come “l’uomo inviato dalla provvidenza”, cadeva il mondo nel quale ero nato e cresciuto fino all’età di diciotto anni. L’educazione impartitami, se non mi impediva di vedere quelle che erano le enormi brutture dell’ingiustizia fascista, mi impediva di prendere una qualsiasi posizione contraria in quanto, trovandosi il Paese in guerra, difficile era per me distinguere tra Italia e fascismo. Colpa grave che mi riconosco ma che ritengo cosa meschina nascondere».

Come la maggior parte dei giovani nati all’inizio degli anni Venti, Eligio cresce nella scuola fascistizzata, imparando a identificare l’Italia e il fascismo.
Immaginiamo che anche Eligio, come moltissimi altri giovani della sua leva, abbia vestito prima la divisa da balilla, poi quella da balilla-moschettiere, infine quella da avanguardista, e che come i suoi coetanei sia cresciuto scrivendo sotto dettatura il bollettino della guerra di Abissinia, credendo nel genio di Mussolini, nella sua capacità di dare all’Italia un grande Impero, di rigenerare la patria, di portare a termine la rivoluzione fascista che subordina l’individuo allo Stato, di difendere la pura razza ariana italica minacciata dalle congiure dell’ebraismo internazionale. Avrà insomma imparato, come dice il primo libro del fascista, vademecum per gli scolari italiani, che «in regime liberale o democratico, il capo del governo è l’esponente di interessi di partito e viene scelto secondo il beneplacito del parlamento, che può sempre determinarne la caduta; invece il DUCE, Condottiero della Rivoluzione fascista e del popolo italiano, rappresenta, anche come Capo del Governo, la intera Nazione, che è ai suoi ordini nella disciplina fascista e nella fede della Patria».
Scoppiata la guerra forse avrà portato anche lui il distintivo propagandista con su scritto «Dio stramaledica gli inglesi». Finché tutto questo sembra crollare con il 25 luglio, quando del fascismo non sembrano restare altro che poche scritte sui muri. Scrive Eligio:        

«solo con il 25 luglio mi è stato possibile conoscere l’antifascismo: i partiti e gli uomini. Ho visto quali danni il fascismo aveva arrecato all’Italia e su quale china disastrosa l’aveva buttata l’alleanza con la Germania nazista. Ho sentito “la gente”, nonostante  il coprifuoco imposto da Badoglio a difesa dei fascisti, dichiarare apertamente la propria avversione al proseguimento della guerra a fianco del tedesco. In questo periodo ho avuto modo di apprendere qual è stata l’attività ed il sacrificio di uomini generosi che hanno perso la vita nel nobile tentativo di salvare l’Italia dalla dittatura fascista. Il loro operato è stato di sprone a me giovane e mi ha indirizzato sulla via della lotta aperta».

Eligio non ci dice altro su come siano maturate rapidamente le sue convinzioni, sulle informazioni ricevute che gli hanno fatto aprire gli occhi sulla realtà del fascismo; così come non ci dice nulla degli uomini di cui ha sentito parlare e che hanno perso la vita nel tentativo di opporsi al fascismo: forse Matteotti, Gobetti, i fratelli Rosselli? In tutti i casi, è probabilmente il contatto con l’ambiente del Collegio Rosmini, a Masera, in Val d’Ossola, dove ha frequentato l’ultimo anno di liceo, a fargli respirare la prima aria antifascista, come leggiamo nella biografia stilata dai curatori del diario.
La scelta è subito chiara e netta, per il giovanissimo Eligio, dopo l’8 settembre: scelta che egli evoca sintetizzando ciò che è accaduto ai soldati lasciati privi di ordine in balìa dei tedeschi: 

«Con l’armistizio ho visto sciogliersi il nostro esercito (purtroppo rari i centri di resistenza al tedesco) nonostante l’ordine di Badoglio di resistere “a qualsiasi attacco da qualunque parte effettuato”. Tristi giorni! Badoglio e il suo re erano fuggiti verso terre sicure! Tragica era la situazione del paese: il tedesco da alleato-padrone era divenuto il nemico padrone. Soldati fuggiaschi, soldati fucilati dal tedesco, soldati caricati sui carri-bestiame per l’internamento in Germania. Bisognava fare qualche cosa per por fine a quei soprusi, bisognava almeno rischiare per accelerare la fine di quella situazione, bisognava conquistare la “libertà” perché il nostro paese fosse ancora un qualcosa di più di una semplice espressione geografica, bisognava riscattare l’onta del periodo fascista».

A settembre Eligio prende i primi contatti con un esponente socialista di Torino, raccoglie qualche arma abbandonata dai militari italiani sbandati, pensa di trasferirsi nel cuneese per mettersi al servizio dell’organizzazione che il generale Operti  sembra voler mettere in piedi (dopo aver messo le mani sulla cassa della 4a Armata, scioltasi al sole dopo l’8 settembre, al momento del rientro in Italia dalla  Francia).
Poi l’arresto del suo contatto torinese, il suo scampato arresto, il trasferimento della famiglia a Montiglio, nell’Astigiano, presso amici, la decisione di salire in montagna, in Val di Lanzo, dove, dal 7 dicembre 1943, inizia la sua vita da partigiano. Vita che così Eligio descrive in maniera lapidaria:  «vita di sacrifici e di stenti, vita di dolori e di grandi soddisfazioni, vita intensamente vissuta che mi ha fatto uomo».

In val di Lanzo: 7 dicembre 1943 - fine aprile 1944

I primi 4 mesi e mezzo Eligio li passa, dunque, in Val di Lanzo, sotto il comando di Felice Mautino («Monti») (torinese, nato nel 1916, di Giustizia e Libertà). Ecco come efficacemente egli ci restituisce gli inizi della banda, con parole che ricordano quelle di molti altri partigiani che ci hanno lasciato una testimonianza di quei faticosi inizi, in cui la maggior parte del tempo passava nel cercare viveri e nel fare la guardia in attesa di un nemico che non arrivava mai:

«Credevo di trovare, secondo le voci correnti in pianura, un’organizzazione efficiente per uomini e materiale bellico, invece trovai una trentina di ragazzi malamente equipaggiati e peggio armati: in tutta la valle c’erano al massimo duecento ribelli in condizioni non più floride della nostre. Mi affiatai subito con il nuovo comandante e con i nuovi compagni coi quali ho diviso tanti lunghi mesi di lotta. Formammo una squadra studenti e ci trasferimmo nella zona di Rongiroldo sempre alle dipendenze di Monti. Lunghe e gravose corvée per il rifornimento di viveri ed interminabili ore di guardia, specie di notte».

Il 6 febbraio 1944 è il giorno della prima azione, con la cattura di un reparto tedesco e il successivo rilascio: prima azione e primo grave errore strategico, in quanto la banda subisce la prima rappresaglia.
Il 9 febbraio 1944 è il giorno della seconda azione, al comando di «Luserni», cioè Gustavo Ribe t[1], dal gennaio 1944 comandante G.L. della valle e figura di grande rilievo nella lotta partigiana: questa volta si tratta di un successo, nonostante due morti e una nuova rappresaglia tedesca, a Chiaves.
Tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo salgono in montagna molti giovani delle annate 1924-1925, che non si presentano al bando di reclutamento emanato da Graziani. La banda si ingrossa, deve scendere spesso in bassa valle per trovare armi e viveri e si espone, tra il 6 e il 22 marzo, a un durissimo rastrellamento, che costa gravi perdite, l’arresto di Ribet [2] e la morte di Enzo Tavanti, il partigiano Morgan [3].
Alla fine di aprile, dopo i contrasti con i garibaldini, che cercano di egemonizzare la zona, i G.L. danno l’addio alla valle di Lanzo, guidati da Felice Mautino e Pietro Ferreira (il comandante Pedro, del 1921, che sarà catturato e fucilato il 23 gennaio 1945 al Martinetto). Dopo avere preso contatti con il comando G.L. di Torino, di recente costituzione, si raggruppano a Chialamberto e partono per la Valle d’Aosta.

Dalla valle d’Aosta alla Valchiusella: 26 aprile-30 ottobre 1944

Dopo alcuni gioni di marcia, ai primi di maggio il gruppo di Eligio arriva a Champorcher. È da quel nucleo che nascono le prime tre Brigate Mazzini, cui se ne aggiungeranno in seguito altre due, dando vita alla 7a divisione alpina G.L. guidata prima da Pedro Ferreira poi da Felice Mautino. Ai primi di maggio, Eligio diventa commissario di polizia della valle di Champorcher, di stanza a Pontbozet.
A fine luglio Felice Mautino lascia la Valle d’Aosta e parte per il biellese, dopo che molti uomini sono stati attratti nell’area dell’autonomismo valdostano.
Il 10 agosto il gruppo di Eligio passa invece in Valchiusella. Eligio diventa vice comandante di polizia della valle. Forse inizialmente entra a far parte della 1a Brigata Mazzini (che dipende dalla 7a divisione G.L. e ha sede fissa a Traversella) e inizia il lavoro di polizia che porta lui e i suoi compagni a «molto e difficile lavoro di spionaggio e contro-spionaggio in una zona dove da poco si erano ritirati i presidi nemici; lavoro che – sottolinea Eligio - ci privò di valorosi ed esperti ragazzi che furono vittime della propria temerarietà. Comunque, in breve riuscimmo ad individuare le spie che pagarono le loro colpe, e fummo in grado di servirci di una fitta rete d’informazioni abbastanza celere».
Intanto in valle si forma una nuova brigata, la 4a, con il comando a Vico Canavese. È iniziato il periodo (10 agosto-30 ottobre 1944) che Eligio definisce il più duro e il più triste, segnato dal pesantissimo rastrellamento tedesco di ottobre nel quale alcune brigate Mazzini vengono sostanzialmente eliminate.
Possiamo seguire il racconto di quel giorno direttamente nelle parole di Eligio:
«Il 20 ottobre [in realtà il 14 ottobre] fummo attaccati da un forte reparto motocorazzato tedesco-russo: una spia aveva tagliato i fili del telefono. Fummo tuttavia avvertiti da una staffetta in moto che era riuscita a partire, al sopraggiungere dei nemici, da Alice. Il comando ordinò ai componenti il servizio di polizia di contrastare il passo al nemico alle porte di Vico, mentre il grosso avrebbe fatto una rigida difesa in alta valle.
Partimmo in 20 o 22 e ci appostammo sopra una collinetta antistante Vico. All’arrivo dei primi autocarri tedeschi sulla sottostante strada aprimmo il fuoco, ma, con nostra sorpresa, ci sentimmo investiti da precise raffiche di mitraglia alle spalle. […]. Scene strazianti, gemiti ed invocazioni “mamma” da ogni lato, mentre il nemico imbaldanzito dal successo avanzava urlando contro di i noi. Tre compagni caddero al mio fianco (Nuccio [4], Alfa [5] e Vito [6]) mentre un quanto (Leo [7]) fu abbattuto quando era già fuori combattimento per una grave ferita.  Dopo soli dieci minuti di quell’inferno eravamo ridotti a cinque. Riuniti fianco a fianco ci lanciammo giù per la china facendo fuoco con tutte le nostre armi sui tedeschi che lentamente salivano. Riuscimmo quasi per miracolo ad attraversare lo schieramento nemico (forse ci giovò l’estrema decisione: era l’unico tentativo o di salvarsi o di morire bene) e, superato il torrente Chiusella, raggiungemmo la montagna. Anche il grosso della nostra formazione dovette cedere dopo un’intera giornata di resistenza, costata gravi perdite ad entrambi i contendenti. Tutti i nostri compagni caduti in mano nemica furono passati per le armi (circa venti). Dopo una settimana di vagabondaggio per i monti, privi di tutto (fuorché delle armi), ci riunimmo a Succinto; tutte le nostre basi erano state date alle fiamme. Il nostro reparto di polizia era stato ridotto a cinque elementi, la brigata aveva perso il trenta per cento degli effettivi. Il morale di tutti era a terra, il mio non esisteva più. Le mie condizioni di salute erano pessime causa la vitaccia dei giorni precedenti. Tutti gli amici più cari, tra cui tutti i “vecchi” meno uno, erano morti. Non mi sentivo più di continuare quella vita: chiesi ed ottenni di tornare a casa. Con me sarebbero venuti due compagni. Dato un addio a tutti c’incamminammo verso Casalborgone».

Torniamo un momento indietro, nel racconto, quando Eligio ci dice di aver raccolto le forze e di essere scappato per rompere l’accerchiamento nemico, superando il torrente e risalendo la china della montagna. Si tratta di un’immagine che ci è familiare, che si ritrova in molte testimonianze diaristiche o letterarie della vita partigiana e che lo scrittore partigiano Beppe Fenoglio ha fissato con alcune splendide parole: quelle che hanno immortalato la fuga del partigiano come un drammatico «pedalare sul vento delle pallottole» nemiche, mentre queste sibilano da tutte le parti e mentre le gambe sprofondano nel fango, nella corsa spasmodica di chi si aspetta il colpo nella schiena o nella testa..

A Berzano san Pietro: 6 novembre 1944-aprile 1945

Eligio torna dunque sfinito e demoralizzato a Casalborgone ma ci rimane poco. Contro la volontà dei suoi familiari, dopo pochi giorni lascia casa e si presenta al vicino comando della Divisione G.L. «G.M.O.» (Gruppo Mobile Operativo): «il ricordo dei Caduti - scrive -, il dovere non interamente compiuto, soprattutto il senso dell’onore ebbero il sopravvento». Inizia così, il 6 novembre 1944, l’ultimo periodo della vita partigiana di Eligio, che terminerà con la liberazione. Scrive Eligio:

«A soli cinque chilometri da casa mia (Berzano S. Pietro) era situato il comando della brigata Tanaro del G.M.O. Là mi recai e feci conoscenza col comandante della brigata, Gianni [cioè Giovanni Bandioli [8]], e col comandante della divisione, Renato [Renato Vanzetti [9]], casualmente presente: mi misi a loro disposizione».
Su quest’ultimo periodo astigiano Eligio ci dice poco, ma siamo in grado di integrare la sua testimonianza dando qualche notizia in più sulla divisione G.L. G.M.O. in cui egli milita [10]. Il Gruppo Mobile Operativo nasce ai primi di ottobre del 1944 raccogliendo alcune squadre di sabotatori della 5a Divisione Alpina scesa dalla Val Pellice al comando dell’ingegner Renato Vanzetti e un gruppo celere (la Brigata Brosio) staccatosi dalla 9a divisione G.L., di stanza tra il Monferrato e la zona di Chieri. Il Gruppo Mobile Operativo è composto da quattro brigate (Superga, Augello, Brosio e Tanaro, quella in cui finisce Eligio) e si segnala per la notevole capacità operativa, effettuando molti colpi e coprendo un’ampia zona. Nel «Diario storico della Brigata Tanaro», redatto nel 1946 e conservato presso l’Istituto Storico della Resistenza di Torino, si trova citato il nome del partigiano «Primo», comandante di guerra della Brigata, a conferma di quanto Eligio scrive di sè [11].

Infatti, dopo avere agito per qualche settimana come ufficiale di collegamento tra il comando di brigata e il comando di divisione, quando Giovanni Giayme (Giaimot) [12] muore, in azione, il 9 dicembre, a Piobesi Torinese, Eligio prende il suo posto come commissario di guerra e comanda il servizio di polizia.
Bisogna precisare che il commissario di guerra presso una brigata G.L. svolgeva un ruolo importante e di elevata responsabilità (era, in sostanza, il vice-comandante della brigata: si occupava, oltre che della logistica di banda, dell’attività di polizia, in particolar modo contro le spie, contro il banditismo e contro le grassazioni nei confronti della popolazione civile). Nel caso di Eligio dobbiamo pensare che si tratta di un giovane, che da poco ha compiuto 20 anni, ma che per assumere quel ruolo all’interno di un gruppo così organizzato come il G.M.O deve dare ai Comandi notevoli garanzie, probabilmente in base alla attività svolta in precedenza in Val d’Aosta e in Valchiusella.
Eligio segnala alcuni episodi di questo periodo che vale la pena ricordare.
In un rastrellamento nella zona di Casalborgone viene catturato un partigiano, Siro Bongiovanni [13], coetaneo di Eligio, che finirà i suoi giorni nel lager di Gusen dove viene deportato insieme con il padre Carlo.
Il 3 marzo c’è un rastrellamento a Berzano san Pietro e in altre località del Monferrato (il rastrellamento nella zona dura dal 2 all’11 marzo).
Il 15 marzo i garibaldini subiscono un attacco alla cascina Baudina di Berzano San Pietro, all’interno del rastrellamento dell’intera zona che dura dal 13 al 29 marzo con la partecipazione attiva, accanto ai tedeschi, delle Brigate nere di Chivasso: vengono uccisi 4 partigiani e cinque civili, abitanti del luogo.
E arrivano infine i giorni di Aprile. Dal Diario della brigata scopriamo che,  su ordine di Renato Vanzetti, la Brigata Tanaro elimina il posto di blocco di Moncalieri, contribuisce a salvare i ponti sul Po, e attacca l’edificio della Propaganda Staffel, sito in Corso Moncalieri 56.
Inoltre la Brigata Tanaro partecipa attivamente all’azione che permette di impedire l’ingresso a Torino della 34a Divisione Corazzata tedesca, giunta alle porte di Moncalieri dopo aver lasciato dietro di sé una scia di morti tra la popolazione civile del cuneese. Azione in cui la Brigata Tanaro affianca gli uomini delle due Divisioni garibaldine delle Langhe.
In conclusione, scrive amaramente Eligio:

«Ultimi combattimenti, gli ultimi caduti. La nostra città era liberata: i nostri morti furono vendicati con il sangue dei traditori. Il primo maggio ci fu una sfilata delle formazioni partigiane alla presenza delle autorità italiane ed alleate. Avevano così modo di esibirsi in sgargianti divise gli eroi dell’ultima ora: gli opportunisti di sempre. I ladri, i grassatori, approfittando dell’eccezionale situazione, infangavano il nome partigiano con le loro losche attività. I combattenti della libertà ricevevano… mille lire e l’ordine di consegnare le armi!
Le nostre speranze ricevevano i primi duri colpi: si vedeva chiaramente che il sacrificio di tanti caduti, gli immani sforzi compiuti non avevano conseguito i risultati sperati».

Anche il diario di Eligio si conclude, come molte altre testimonianze che mi è capitato di leggere, con questa nota amara: da una parte, la presenza degli eroi dell’ultima ora, della massa di opportunisti che si mescola ai partigiani; dall’altra, il trattamento riservato ai partigiani, rispediti a casa senza armi con mille lire e un taglio di tessuto. Anche Eligio evoca un futuro che sperava diverso, senza tener conto, però, del contesto reale in cui la lotta di liberazione si conclude: l’occupazione dell’Italia da parte degli alleati, che nonostante i riconoscimenti ufficiali alle forze partigiane tratteranno l’Italia come una potenza sconfitta, complice della Germania di Hitler. 
Dalla breve biografia che accompagna il suo diario apprendiamo che nell’immediato dopoguerra Eligio viene assunto nella Polizia di Stato con il grado di sottotenente e che «in meno di un anno si dimette perché soprattutto fra i superiori stanno rientrando numerosi gli ex-fascisti». Possiamo citare ancora le sue parole, contenute in un esposto inviato nel gennaio 1956 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori: «in seguito alla continua riassunzione di elementi ex repubblichini, specialmente tra i miei superiori di grado, mi sentii in dovere di dimettermi onde non venir meno ai miei principi di antifascista e non trovarmi eventualmente in condizione contrastante ai miei doveri di ufficiale».
Non è il caso, qui e ora, di riparlare del fallimento dell’epurazione dei fascisti dall’apparato  statale e degli esiti dell’amnistia Togliatti del 22 giugno 1946. Ci pare evidente, da quanto dice, che anche Eligio subì la mancata epurazione, sentendosi costretto ad abbandonare il servizio di polizia per non mischiarsi con i fascisti che tornavano al loro posto. Nella chiusa del suo diario, datato ottobre 1949, Eligio scrive:

«Triste è la vita oggi per i partigiani: il sacrificio compiuto misconosciuto, il lavoro vien loro negato, il ricordo dei caduti vilipeso. Il nemico di ieri; il nemico della libertà di oggi e di sempre ha rialzato la testa. Male egli ha interpretato la magnanimità dei partigiani: la nostra non fu debolezza! Oggi i partigiani stringono i denti, mordono il freno, ma vigilano: mai più il fascismo risorgerà. Il sacrificio dei caduti non è stato vano. I vivi han giurato ai morti di difendere la Libertà o di per essa morire. Ai giuramenti i partigiani sanno mantenere fede».

Vorrei sottolineare qui la vicinanza con le parole pronunciate l’anno prima, il 18 settembre 1948, da Dante Livio Bianco (l’ultimo comandante in capo delle formazioni G.L. del Piemonte, oltre che componente del Comitato militare del CLN della Regione), di fronte al Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, in occasione della sua visita a Cuneo per il conferimento di medaglie al valor militare a sette partigiani. Dopo avere ricordato il contributo dei partigiani cuneesi alla lotta di liberazione, Dante Livio Bianco dice: 

«E se anche l’Italia di oggi non è quella che abbiamo sognato e per la quale sono morti i migliori fra noi; se i partigiani mutilati o invalidi e le famiglie dei caduti ancora attendono la liquidazione delle loro pensioni; se è possibile che pubblicamente ed indisturbatamente siano qualificati volgari assassini i membri di quel Comando Regionale Piemontese che ha avuto nel nostro Duccio Galimberti un animatore ed un esponente esemplare; se in troppe occasioni i reggitori del nostro paese dimenticano quel che persino nel trattato di pace ci è stato riconosciuto dagli stranieri, ossia l’apporto preminente e decisivo della Resistenza per la riabilitazione dell’Italia dopo l’infame ventennio fascista; se, dunque, tutte queste cose, e tante altre simili possono riempire l’animo di sdegno, di amarezza e di delusione, tuttavia i partigiani cuneesi non depongono la fede, e fanno loro il sostanzioso motto dello stemma cittadino: FERENDO! [Sopportando, n.d.r.]»

Sentimenti simili, sentimenti da Giellisti che restano fedeli a stessi, anche se hanno perso, o stanno perdendo, ogni speranza in quel repentino mutamento che avrebbe dovuto avviare un processo di rigenerazione del Paese, dopo i vent’anni di regime monarchico-fascista, la catastrofe della guerra e della sconfitta militare.

In conclusione: per ricordare i nostri partigiani

Tentiamo ora di dire qualcosa su cosa significhi raccogliere l’eredità di questi nostri partigiani, come Eligio.
Non ci sono dubbi sul fatto che la resistenza, armata o meno che fosse, abbia dato un contributo alla vittoria contro la Germania e contro i suoi servi della Repubblica di Salò. Così come non ci sono dubbi sul fatto che (come leggiamo nella bella sentenza n. 1456 emessa dalla Corte di Cassazione il 17 ottobre del 1977) «gli ideali di libertà e i valori di fondo del movimento unitario di liberazione furono trasfusi nella Costituzione repubblicana, costituendone il substrato ideologico e politico».
Quando nel marzo del 1947 si aprì in aula la discussione sul progetto costituzionale, il monarchico Roberto Lucifero propose di definire la Costituzione «afascista» e non antifascista, per cancellare una volta per tutte il passato e ripristinare lo stato liberale. Gli risposero eloquentemente Piero Calamandrei, Palmiro Togliatti e Aldo Moro, del quale vogliamo riportare le parole. Disse Moro:

«Non possiamo fare una Costituzione afascista, non possiamo prescindere da quello che è stato nel paese un movimento che nella sua negatività ha travolto le coscienze e le istituzioni. Non possiamo dimenticare ciò che è stato perché questa Costituzione emerge dalla Resistenza e dalla lotta a quelle negazioni, nella quale ci siamo trovati insieme. Guai a noi se, per una malintesa preoccupazione di serbare pura la Costituzione da un’infiltrazione di motivi partigiani, dimenticassimo questa sostanza comune che ci unisce. La Costituzione nasce in un momento di agitazione e di emozioni, quando ci sono scontri, nei momenti tragici nascono le Costituzioni. Non possiamo prescindere da queste comuni e costanti rivendicazioni di libertà e di giustizia»[14].

Diciamolo in modo più esplicito, con le parole di un filosofo del diritto contemporaneo: «la Costituzione italiana è frutto di una rottura rivoluzionaria: della Resistenza e della guerra di liberazione del nostro paese dalla dittatura fascista»[15].
I padri Costituenti recepirono, dunque, pur nella differenza di formazione e di progetto politico, il messaggio di liberazione antifascista della Resistenza che ruotava intorno ad alcuni principi chiave: libertà, democrazia, uguaglianza, giustizia sociale, pace. «La Costituzione infatti - scriveva Piero Calamandrei nel 1955 - non è altro che lo spirito della Resistenza tradotto in formule giuridiche: il programma legalitario di rinnovamento democratico al quale si sono impegnati tutti gli uomini liberi che durante la lotta antifascista si trovarono uniti a combattere contro l’oppressione straniera e interna»[16].
Ciò nonostante, nel dopoguerra i partigiani furono spesso trattati come delinquenti o furono emarginati. In particolare, dopo che l’amnistia Togliatti aveva mandato i fascisti a casa, continuarono i processi ai partigiani. Soprattutto a partire dal maggio 1947, nel mutato clima politico, con la rottura del patto politico tra le forze del C.L.N., si aprirono molti processi per episodi di guerra partigiana compiuti prima del 25 aprile 1945. I processi ai partigiani continuarono fino agli inizi degli anni ’60, con particolare accanimento nel periodo 1948-1954, quando si ebbero scandalose sentenze, nelle quali i giudici della magistratura ordinaria si permisero di decidere, con argomentazioni capziose, quali azioni potessero essere considerate di guerra e quali no, quali azioni potessero configurare il sabotaggio e quali no, mentre la Corte di Cassazione mandava assolti i fascisti e alcuni giudici militari proponevano il riconoscimento dei repubblichini come belligeranti a piano titolo.  
Il fatto più eclatante fu, forse, il tentativo di considerare la lotta partigiana solo come oggetto di misure giudiziarie, nel migliore dei casi di amnistia, e non di piena legittimazione politica e militare. Nel 1947 Piero Calamandrei lamentava che a quasi tre anni dalla Liberazione non vi fosse ancora in Italia una legislazione che desse pieno riconoscimento giuridico alla guerra partigiana; mancava ancora quel riconoscimento che era stato «promesso» con il decreto legge luogotenenziale del 12 aprile 1945, che non solo dichiarava non punibili le azioni di guerra dei patrioti nell’Italia occupata, ma già dichiarava i corpi e reparti di volontari autorizzati a combattere come forme armate dello Stato. La legge n. 645 del 1952, la legge Scelba, che applicava la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione definendo il reato di riorganizzazione del disciolto partito fascista, considerava fascista l’associazione o il gruppo di persone che avesse denigrato i valori della Resistenza. Bisogna aspettare la modificazione, sancita definitivamente soltanto con la Legge n. 655 del 30 luglio 1957, dell’art. 290 del Codice Penale sul «Vilipendio della Repubblica, delle Istituzioni costituzionali e delle Forze armate», che mette su carta l’equiparazione delle Forze di liberazione alla Forze armate[17]. E poi bisogna aspettare il 1958 per avere una legge dello Stato (la legge n. 285 del 21 marzo 1958), sul «riconoscimento giuridico del Corpo Volontari della Libertà (C.V.L.)» in cui si legge, all’art. 1, che «il Corpo Volontari della Libertà è riconosciuto, ad ogni effetto di legge, come corpo militare organizzato inquadrato nelle forze armate dello Stato, per l’attività svolta fino all’insediamento del governo militare alleato nelle singole località». Dopo la guerra, per lunghi anni, la democrazia italiana non aveva saputo (o voluto) legittimare i suoi artefici e i loro comportamenti. Finalmente, con la legge del 1958 non spettava più alla magistratura ordinaria decidere sul comportamento dei partigiani in guerra: lo Stato Repubblicano assumeva in proprio la responsabilità della lotta partigiana contro l’occupazione tedesca e la repubblica fascista di Salò.
Qualcosa di questa faticosa affermazione si è incrinato, se è vero che negli ultimi anni, più volte, si è arrivati ad un passo dal riconoscere la qualifica di militari belligeranti a quanti prestarono servizio militare nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana. E oggi possiamo immaginare che sia sepolta per sempre questa Italia che vuole stravolgere la storia? Staremo a vedere, tenendoci pronti, comunque, come Associazione partigiana, a far sentire la nostra voce. 
Intanto, a chi si riconosce nelle radici della nostra Costituzione e nel significato della lotta di liberazione, per le Associazioni che raggruppano i partigiani e che si sono aperte ai giovani in cerca di un punto di riferimento nel marasma della politica italiana, spetta un duplice compito.
Innanzitutto, difendere la costituzione da chi vuole disattendere i principi fondamentali, da chi non vorrebbe rispettare i diritti sanciti nella prima parte, da chi  cerca di stravolgere, a colpi di riforme, la seconda parte, senza spiegarci in che modo una riforma che assegni più potere al Presidente del consiglio o al Capo dello Stato, mettendo da parte, più di quanto già si faccia, di fatto, oggi, il parlamento, possa permettere di realizzare meglio il programma iscritto nella prima parte. Programma che ha nell’art. 3 il suo perno. Nell’art. 3 la Costituzione si dimostra, infatti, «sincera»[18],  ammettendo, dopo aver proclamato l’uguaglianza giuridica, che la società è fondata sulla disuguaglianza di fatto, e imponendo l’intervento dei poteri pubblici nella vita economica e sociale al fine di creare, se necessario, delle diseguaglianze legislative che contrastino ed equilibrino le «disuguaglianze di fatto dovute alla “lotteria naturale” che assegna a ciascuno il posto in cui nasce e da cui entra nella società»[19]. Naturalmente, affinché la Repubblica rispetti tale obbligo costituzionale è necessario che «ci sia davvero chi ha la volontà e la forza di effettuare tali interventi»[20], altrimenti i  diritti «non sono nulla, sono soltanto belle parole»[21], come ha scritto il giudice emerito della Corte costituzionale Gustavo  Zagrebelsky. E siamo davvero sicuri che le forze politiche che ci governano, in larga parte estranee o addirittura ostili alla radici antifasciste della nostra costituzione, possano volere una riforma costituzionale che metta l’assetto istituzionale della Repubblica in grado di dare più garanzie ai cittadini sulla realizzazione del programma della Costituzione?
Il secondo compito (ma non secondo in ordine di importanza) che ci spetta è la tutela della memoria dei nostri partigiani. Questi partigiani, uomini e donne, quelli che hanno combattuto con le armi e quelli che hanno dato aiuto e soccorso rischiando comunque la pelle, sono, per noi, i fratelli e le sorelle maggiori, padri e madri della democrazia italiana. Lo sono qualunque sia stata la ragione della loro scelta, dopo l’8 settembre, qualunque gesto essi abbiano compiuto, anche quello per niente semplice della renitenza e della diserzione. 
Non so quante forze civili e politiche siano ancora oggi realmente disponibili a raccogliere sogni e speranze dei nostri partigiani, magari scusandosi per quello che questo paese ha loro procurato, in oblio e in offese. Non so davvero se oggi esistano motivi per essere ottimisti. Quello che so è che dobbiamo tenerci stretti i pensieri e la memoria dei nostri partigiani, salvaguardando la loro storia dal suo nemico più insidioso, che non è più quel fascismo, ma è l’ottundimento delle coscienze, la stupidità, il qualunquismo, l’arroganza del potere, la frantumazione del sottile filo di cui è fatta la trama del sistema di regole che fonda la convivenza civile.
Un vero pericolo è l’oblio, il nuovo conformismo che affossa la storia riscrivendola in forma banalizzata e vuole dimenticare il passato mettendoci una pietra sopra. Equiparare i morti, come si è cercato di fare a più riprese in questi ultimi dieci anni, con proposte di legge costruite su vere e proprie distorsioni storiche, significa, alla fine, mettere sullo stesso piano, e relegarle nel passato remoto, esperienze, motivazioni, gesti, pensieri tra di loro incommensurabili; mettere sullo stesso piano chi aveva comunque scelto di lottare, consapevolmente o meno, per i valori della sopraffazione e chi, invece, lottava per riscattare se stesso da un passato di passività e per immaginare un’umanità, come scrisse Italo Calvino, «senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi»[22]. Se vince questo nemico potente, il nuovo conformismo che tutto confonde, neppure la memoria dei nostri partigiani sarà più al sicuro. Per questo dobbiamo rifiutarci di far parte dell’Italia che celebra e commemora e intanto vuole dimenticare i nostri giovani migliori[23].

Giuseppe Farinetti




[1] Gustavo Ribet: nato a Luserna San Giovanni (Torino) il 20 dicembre 1912, morto nel 1981, ufficiale dell’Esercito, dirigente industriale ed esponente della Chiesa valdese. La biografia di Ribet è consultabile sul sito dell’A.N.P.I. all’indirizzo http://www.anpi.it/uomini/ribet_gustavo.htm, da cui traggo le informazioni fondamentali. Cresciuto in una famiglia valdese molto patriottica (il padre, ufficiale di carriera, era caduto durante la Prima guerra mondiale, meritando una Medaglia di bronzo, tre d’argento e la massima decorazione al valore), Gustavo era entrato, a diciannove anni, all’Accademia di Artiglieria e Genio di Torino. Nel 1935, tenente, aveva combattuto in Africa orientale e tra il 1937 e il 1939, al comando di reparti di artiglieria someggiata, era stato decorato di croce di guerra e di Medaglia d’argento. Prima del Secondo conflitto mondiale, aveva avuto modo di frequentare l’Istituto superiore di guerra e di laurearsi in Scienze politiche a Torino. Era poi stato mandato, nel 1942, in Jugoslavia, presso il comando dell’XI Corpo d’armata italiano. Catturato dai tedeschi dopo l’armistizio, Ribet riuscì a fuggire e a unirsi ai partigiani di Tito, per passare poi a militare nella Resistenza veneta. L’ufficiale raggiunse quindi Torino dove, nel gennaio del 1944, il Comando militare del CLN gli affidò la guida delle formazioni di "Giustizia e Libertà" operanti in Valle di Lanzo. 
[2] Nel sito dell’A.N.P.I si legge: «Pesantemente percosso e torturato, fu imprigionato alle "Nuove" di Torino per quattro mesi e poi deportato in Germania. Era destinato a Mauthausen, ma in seguito ai bombardamenti degli aerei angloamericani venne dirottato al campo di lavoro di Gaggenau, presso Darmstad. Liberato grazie ad uno scambio di prigionieri, nel dicembre del 1944 ecco Ribet di nuovo a Torino. Ma qui è troppo conosciuto e il CLN decide di mandarlo a Milano dove, è il febbraio del 1945, assume il comando delle formazioni G.L. lombarde sino alla Liberazione».
[3] Enzo Tavanti nasce nel 1918 a Città della Pieve (Perugia). Tenente di fanteria, comandante di un distaccamento G.L. in Val di Lanzo, viene ucciso il 7 marzo a Bogliano, dopo aver protetto da solo, con una mitraglia, per alcune ore, la ritirata dei suoi uomini.

[4] Garis Mario, nato nel 1924, fucilato per rappresaglia il 14 ottobre.
[5] Strazza Gioacchino, nato nel 1923, fucilato per rappresaglia il 15 ottobre.
[6] Arnold Antonio, nato nel 1923, caduto il 14 ottobre alla pineta di Meugliano.
[7] Gandolfo Luigi, nato nel 1925, caduto il 14 ottobre.
[8] Giovanni Bandioli, nato nel 1920, proveniente dalla 5a divisione G.L. della Val Pellice
[9] Già comandante della 5a divisione G.L. della Val Pellice, scende nel Monferrato e organizza il GMO nella zona in cui già opera la 9a divisione G.L.
[10] Cfr. G. De Luna, P. Camilla, D. Cappelli, S. Vitali (a cura di), Le formazioni GL nella Resistenza. Documenti, Milano, 1985, pp.281-282, 408-409..
[11] Cfr. «Diario storico della Brigata Tanaro», datato 13 febbraio 1946 e conservato negli archivi dell’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea, scaffale B 29, fasc. h,  p. 4.
[12] Nato nel 1921 a Luserna san Giovanni, proveniente dalla 5a divisione GL, morto durante un colpo di mano a Piobesi Torinese, il 9 dicembre.
[13] Siro Bongiovanni, nato il 22/08/1924 a Casalborgone, morto il 09/04/1945 a Gusen (Austria).
[14] Cfr. L. Cecchini, Antifascismo e Costituzione, in «Patria indipendente», rivista dell’ANPI, n. 2 del 23 febbraio 2003, pp. 6-8.
[15] L. Ferrajoli, Democrazia e Costituzione, in G. Zagrebelsky-P.P. Portinaro-J. Luther (a cura di), Il futuro della Costituzione, Torino, 1996, p. 324.
[16] P. Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla, in AAVV, Dieci anni dopo. 1945-1955. Saggi sulla vita democratica italiana, Bari, 1955, pp. 314-315; ora anche in P. Calamandrei, Costituzione e leggi di Antigone. Scritti e discorsi politici, Firenze, 2004, pp. 223.
[17] L’articolo 290 dedicato al Vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate recita:
Chiunque pubblicamente vilipende la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste, ovvero il Governo, o la Corte1.000 a euro 5.000. La stessa pena si applica a chi pubblicamente vilipende le forze armate dello Stato o quelle della liberazione. costituzionale o l’ordine giudiziario, è punito con la multa da euro
[18] Cfr. il commento di Umberto Romagnoli al 2o comma dell’art. 3 in G. Branca (a cura di), Commentario della Costituzione. Principi fondamentali. Art. 1-12, Bologna-Roma, 1975, p. 165.
[19] M. Dogliani, «Art. 3. Il principio di eguaglianza», in G. Neppi Modona (a cura di), Stato della Costituzione, Milano, 1995, p. 17.
[20] Ivi.
[21] G. Zagrebelsky, Questa Repubblica. Educazione civica per le scuole superiori, Firenze, 2003, p. 214.
[22] I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Milano, 1992, p. 151.
[23] Alcuni passi di questa parte conclusiva sono stati tratti, in forma rielaborata, da un mio precedente intervento, apparso sulla rivista «Il Presente e la Storia» dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in Provincia di Cuneo, n. 70, dicembre 2006.